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Ebook di Decimo Giunio Giovenale

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Decimo Giunio Giovenale

(Aquino 50/65 - m. 140 ca) poeta latino. Poco sappiamo della sua vita. Fu probabilmente di famiglia benestante, perché dovette ricevere una buona educazione retorica. Esercitò l’avvocatura, probabilmente con scarso successo, e secondo una tradizione non molto attendibile morì in Egitto, dove era stato esiliato. Scrisse 16 Satire (l’ultima è incompleta), pubblicate, forse da lui stesso, in 5 libri, che uscirono dopo la morte di Domiziano, quando (sotto Nerva, Adriano e Traiano) il clima politico sembrava concedere una maggiore libertà: il primo libro (satire I-V) uscì dopo il 100, il secondo (che contiene soltanto la celebre satira contro la licenziosità delle donne) attorno al 116, il terzo (satire VII-IX) attorno al 120, il quarto (satire X-XII) attorno al 125 e l’ultimo dopo il 127.Nella ricca tradizione della satira latina G. occupa una posizione a sé, lontana dai modi bonari di Orazio o di Persio. Profondamente legato (forse perché nato da una famiglia del ceto medio italico) agli ideali della tradizione repubblicana e contadina, G. vive tutta la confusione della capitale di un impero cosmopolita, dove quegli ideali sono quotidianamente calpestati, soprattutto dalle classi elevate. Di fronte a una società che gli appare irrimediabilmente corrotta, G. non crede che la sua rampogna possa indurre gli uomini a emendarsi; la sua è perciò una satira senza speranza, che si abbandona di rado all’ironia e al tono meditativo, ma offre un quadro drammatico e a volte brutale, con una crudezza che ha pochi paragoni nelle letterature dell’antichità.Poiché non giova parlare del lontano passato, né è consentito parlare del presente, G. evoca le figure sinistre degli uomini da poco defunti, svelando con una lucidità ignota ai contemporanei i vizi e le ingiustizie della società romana: la dissolutezza e la perversione dei costumi, le angherie dei potenti, la miseria materiale e morale della plebe, il servilismo e la vacuità dei letterati alla moda, l’indegnità delle classi dominanti. Il suo sdegno, indubbiamente sincero, si esprime però nelle forme della tradizione retorica, di cui egli è un profondo conoscitore. Il tono concitato risale alla tradizione della diatriba filosofica (più evidente negli ultimi due libri), ma tutta l’arte di G. è declamatoria, densa di figure a volte barocche, sempre vigorose e drammatiche, di formulazioni incisive che spesso hanno assunto valore proverbiale.

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